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L’omaggio di lavoro_innovazione a Luciano Gallino

La prima edizione della Settimana del Lavoro è stata dedicata a Luciano Gallino. A ricordo del grande sociologo ogni giornata si è aperta con un momento a lui dedicato curato dall’attrice Eleni Molos.
Ogni video è composto da una sigla iniziale, dei commenti di alcuni ragazzi sul mondo del lavoro e una riflessione sul tema di Luciano Gallino. Ai video sono affiancati dei brevi testi tratti dai saggi del sociologo.

Ma cos’è questa crisi

Vincenzina e la fabbrica

Uomini e soldi

Ninna nanna del capitale

Canzone della classe dirigente

Canzoni dei fiori e del silenzio

Cari nipoti vi racconto la nostra crisi

in Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Torino, Einaudi, 2015, pp. 3-10

Quel che vorrei provare a raccontarvi, cari nipoti, è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la vostra …ma voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione europea.….. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta la vittoria della stupidità.
L’idea di uguaglianza, anzitutto politica, si è affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni cittadino gode di diritti inalienabili, indipendenti dal suo censo o posizione sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo che essi siano realmente esigibili da ciascuno. La marcia di tale idea è stata per oltre due secoli faticosa e incerta, ma nell’insieme ha avuto esiti straordinari. La facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la graduale estensione del voto sino a includere tutti i cittadini; la tassazione progressiva; l’ingresso del diritto nei luoghi di lavoro; l’istruzione libera e gratuita per tutti sino all’università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative della finanza: è una lunga storia, quella che vede il principio di uguaglianza diventare vita quotidiana per l’intera popolazione……
Causa fondamentale della sconfitta dell’eguaglianza è stata la stessa crisi del capitalismo…. Alle diverse facce della sua crisi il capitalismo ha reagito accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita …. con il sostegno di una ideologia, il neoliberalismo, che, riducendo tutto e tutti a macchine contabili dà corpo a una povertà del pensiero e dell’azione politica quale non si era forse mai vista nella storia.
Quando parlo di pensiero critico, che costituisce la perdita numero due, mi riferisco a una corrente di pensiero che … mette in discussione le rappresentazioni della società diffuse dal sistema politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante che …. distorcono la realtà al fine di legittimare l’ordine esistente a favore delle élite … con l’idea che l’arricchimento dei ricchi solleva tutte le barche – laddove un minimo di riguardo all’evidenza mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano, esso solleva soltanto gli yacht.… Al posto del pensiero critico ci ritroviamo… la stupidità al potere. È l’impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo l’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre cause….
Resta pur vero che senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio.
Che cosa possiamo fare noi, mi chiederete. Anzitutto dovete farvi un’idea solida del tipo di persona, di essere umano che ammirate, e che vorreste essere. La concezione dell’essere umano teorizzata e perseguita ai nostri giorni con drammatica efficacia dal pensiero neoliberale ha lo spessore morale e intellettuale di un orologio a cucù. In alternativa, nei vostri libri di scuola potete trovare quanto di meglio il pensiero occidentale ha espresso in venticinque secoli. Si tratta di metterlo in pratica. Fondamentale in esso, a onta delle sue innumerevoli differenziazioni, è la distinzione tra ragione soggettiva o strumentale e ragione oggettiva. La prima vede nell’essere umano principalmente una macchina da calcolo, che pondera senza tregua il rapporto tra mezzi e fini: è l’idea alla base dell’ideologia neoliberale, per contro, stando alla seconda definizione di ragione, questa esiste anche nel mondo oggettivo. Come ha scritto Max Horkheimer, essa esiste “nei rapporti fra gli esseri umani e fra le classi sociali, nelle istituzioni sociali, nella natura e nelle sue manifestazioni”. In questa concezione quel che più conta sono i fini, non i mezzi. Essa non guarda alla massimizzazione dell’utile, bensì al problema sul destino umano, “al modo di realizzare i fini ultimi”. Incluso l’ideale dell’eguaglianza, e quello di evitare all’umanità, in un futuro che si avvicina rapidamente, il fosco destino che l’aspetta se non provvede quanto prima a riparare i guasti da essa stessa apportati al sistema ecologico.
Se riuscirete a costruirvi un’immagine dell’essere umano da creare in voi, ispirata da fini ultimi simili a quelli citati piuttosto che dai precetti della finanza, vi verrà naturale pensare a quale sarebbe il genere di società in cui quel tipo umano vorrebbe vivere, e che vorreste impegnarvi a realizzare.

Perché il sindacato non conta quasi più.

in Come (e perché) uscire dall’euro ma non dall’Unione Europea, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 46-49

Relitto anacronistico della rivoluzione industriale. Superfluo come soggetto contrattuale; i contratti collettivi di lavoro sono superati. Incapace di rappresentare i gli interessi dei lavoratori globali. Questo dicono del sindacato manager e politici, e anche non pochi operai e impiegati. A tutto ciò si aggiungono le divisioni interne e gli attacchi contro alcune organizzazioni…
Questi dati dicono che nei paesi sviluppati quando i sindacati sono deboli le retribuzioni, insieme con altri aspetti delle condizioni di lavoro, virano al ribasso. Certo nei paesi emergenti va peggio. Qui i sindacati non esistono o hanno scarso potere contrattuale. Risultato: a parità di produttività e di potere di acquisto, i salari sono da due a cinque volte più bassi, gli orari più lunghi, i giorni di riposo e di ferie ridotti al minimo. Sono anche paesi dove chi sostiene il ruolo del sindacato rischia la vita. … nelle Filippine le vittime sono state 70 in quattro anni. Le colpe di tutti loro? Chiedevano condizioni di lavoro più decenti per i compagni.
Le cose sono un po’ diverse in tema di capacità del sindacato di rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori: quelli che flottano tra una quarantina di contratti atipici, fanno mestieri inesistenti dieci anni fa, o lavorano soltanto con l’immateriale che scorre sullo schermo, cioè i lavoratori della conoscenza. E’ vero che tale capacità appare carente. Ma non si può imputarla solo al ritardo dei sindacalisti nel comprendere le nuove realtà produttive. Il fatto è che dette realtà sembrano costruite appositamente per ostacolare il sindacato nel rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori. Si prenda il caso di un piccolo elettrodomestico venduto nei supermercati. Le 5.060 parti di cui è composto sono fabbricate in una dozzina di siti posti in dieci paesi diversi e controllati da multinazionali che hanno sede altrove… l’assemblaggio finale dell’apparecchio può avvenire in uno stabilimento sito in Umbria o in Puglia, per mano di lavoratori italiani, nigeriani, moldavi, magrebini. Essi fanno capo, pur lavorando insieme, a cinque o sei aziende differenti; inoltre tra di essi si contano una dozzina di contratti di lavoro diversi… per il sindacato “rappresentare gli interessi” dei lavoratori non è diventato solo una fatica erculea: non si capisce nemmeno cosa voglia dire. Che è precisamente il risultato che gli architetti della globalizzazione volevano ottenere.

Le domande di un disoccupato

in Come (e perché) uscire dall’euro ma non dall’Unione Europea Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 123-126

Se fossi un disoccupato, dinanzi ai dati spaventosi sulla disoccupazione mi verrebbe da fare alcune domande. La prima: come potete voi, ministri e parlamentari, dirigenti ed esperti di economia, venirci a dire “l’economia va meglio, la ripresa è in corso, ma la disoccupazione è in aumento”? da che mondo è mondo, tutti abbiamo imparato a scuola, e reimparato lavorando – quando il lavoro ce l’avevamo – che l’economia ha una funzione vitale da svolgere: deve produrre ricchezza per il maggior numero di individui, offrire condizioni di impiego decenti, moltiplicare i posti di lavoro. Deve, in sostanza, creare occupazione. Se anziché creare occupazione la si distrugge, perché la vostra stupefacente frase significa in fondo questo, l’economia non va meglio ma decisamente peggio. E voi dovreste smetterla di raccontarci il contrario.
Un’altra domanda che mi verrebbe da fare, nel caso in cui oltre a essere disoccupato avessi pure una figlia o un figlio nella medesima condizione, è se voi tutti, politici, etc., vi rendete conto di che cosa significa per un giovane non riuscire a non trovare nemmeno il primo lavoro dopo la scuola, quello che non si scorda mai, la porta di ingresso alla vita. Magari pagato poco ma ragionevolmente interessante, passabilmente stabile. Non riuscire a trovare per tempi lunghissimi il primo lavoro non è soltanto un’umiliazione. E’ un logoramento del carattere…
Infine, se fossi un disoccupato chiederei come possa mai essere venuto in mente a tutti voi di elaborare manovre finanziarie che non solo valgono zero quanto a stimolo per l’economia, ma producono altre centinaia di migliaia di miei simili, cioè di disoccupati. I tagli alla scuola, alla sanità, alla Pubblica Amministrazione centrale e locale butteranno fuori dal mercato del lavoro moltissime persone. Molte altre perderanno il lavoro poco dopo perché, come sta scritto nei manuali di economia della medie, uno stipendio o un salario che gira ne crea uno o più in altri settori. Perciò uno stipendio in meno non è un risparmio benefico, come ci raccontare, bensì una contrazione di attività che si ripercuote negativamente su altri stipendi…. Se Province e Regioni costruiscono meno scuole, strade e ponti non si risparmiano affatto soldi: si creano altri disoccupati. Se nelle scuole ci saranno centomila insegnanti in meno, e meno ore di istruzione per tutti, questo non vorrà dire risparmiare. Vorrà dire costruire per il futuro un altro reparto della grande fabbrica di lavoratori disoccupati, sotto-occupati e malpagati in cui state trasformando l’Italia….
Buttate lì le domande di cui sopra, se fossi un disoccupato chiederei una cortesia. Non venite a dirci, voi tutti politici e imprenditori, megaconsulenti e top manager, cose tipo “ce lo chiede l’Europa”, “altri paesi hanno più disoccupati di noi”, oppure “lo esige la globalizzazione”. Altri paesi avranno magari qualche decimo di punto di disoccupazione in più, ma hanno sussidi più alti e di maggior durata – il che permette al disoccupato di continuare a spendere. Hanno servizi alle famiglie tali da permettere alle donne di lavorare senza problemi. E di certo non è l’Europa che ci chiede di pagare i salari più bassi di tutta la UE a 15. Quanto alla globalizzazione, siete stati voi e i vostri colleghi europei a mettere in concorrenza i nostri salari e i nostri posti di lavoro con quelli della Cina e dell’India, del Messico e del Sud Africa. Il deterioramento delle condizioni di lavoro che ne è seguito, di cui la disoccupazione è l’aspetto peggiore ma non il solo, gravano già sulle nostre vite. Risparmiateci per favore le spiegazioni che ritorcono su di noi, disoccupati presenti e futuri, la responsabilità dell’accaduto.

Diario postumo di un flessibile

in Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 3-6

Gli studi storici sulla civiltà italica del terzo millennio hanno fatto un importante passo avanti con la scoperta del diario d’uno sconosciuto vissuto nei primi decenni dell’epoca. Un esame preliminare dei suoi contenuti ci ha indotto a ritenerlo opera d’un “uomo flessibile”, categoria numerosa a quei tempi. In effetti disponevamo già d’una massa ragguardevole di documenti relativi al Culto della Flessibilità allora diffuso. Articoli, saggi, fossili di filmati tv, pergamene d’accordi internazionali come quello famoso tra Italia e Gran Bretagna di inizio millennio, attestano come la venerazione della Flessibilità fosse una delle occupazioni principali di quelle popolazioni.
In ogni settore della vita sociale, culturale, politica, financo economica, esse parevano anteporre tale culto ad ogni altro impegno o pensiero. Per la verità, i ricercatori non sono finora riusciti ad appurare se la Flessibilità fosse creduta essere, o si volesse far credere che fosse, spirito, sostanza, persona, archetipo collettivo o logo pubblicitario. Questo diario d’un uomo che pare praticasse la Flessibilità, per convinzione o per obbligo, permette comunque di comprendere meglio quale incidenza essa avesse nella vita quotidiana. Il diario copre un arco di parecchi anni. Ne riportiamo alcuni brani.
Ottobre 2001. A me la flessibilità piace. Mi lascia libero di organizzare il mio tempo. Sono indipendente. E poi si incontrano facce nuove. Lavorare in aziende sempre diverse è una bella esperienza. Mi arricchisce la professionalità e mi permette anche di spenderla meglio. È vero che ogni tanto devo chiedere soldi ai miei per andare in discoteca, perché tra un lavoro e l’altro magari passa qualche mese. Ma insomma, se penso a loro che han passato tutta la vita nello stesso barboso posto, io son molto più soddisfatto.
Giugno 2005. La ditta in cui ho lavorato tre mesi m’ha rinnovato il contratto per altri sei. Giusto un paio di giorni prima che scadesse l’altro. Si vede che mi apprezzano. Certo che se me lo dicevano un po’ prima avrei gradito, perché mi risparmiavo di girare le agenzie e passare nottate in Internet per vedere se trovavo un altro lavoro.
Gennaio 2006. La mia compagna S. vorrebbe fare un figlio. Pure a me piacerebbe. Però è anche lei una flessibile – sta facendo un tempo parziale – e se dovesse capitare che restiamo tutti e due senza lavoro, tra un impiego e l’altro, non ce la faremmo. Dunque meglio aspettare. Siamo ancora giovani.
Marzo 2009. La ditta in cui lavoro da sei mesi m’ha rinnovato il contratto per altri tre. Il capo del personale dice che per adesso, in attesa del giudizio dei mercati sui loro prodotti, non possono fare di più. Ma invita ad avere fiducia. Altri hanno avuto prima o poi il tempo indeterminato. Visto che dove lavoro io siamo almeno duecento, gli domando quanti sono. Potrebbero essere addirittura il venti per cento, risponde, facendomi due o tre nomi.
Maggio 2010. Insieme con S. sono andato in banca. Vorremmo comprarci un alloggetto. Anche se alla fine non lavoriamo in media più di otto o nove mesi all’anno, guadagniamo abbastanza. Però avremmo bisogno d’un prestito o d’un mutuo. L’impiegata sta a sentire, fa qualche domanda, poi dice che non si può. I prestiti o i mutui si concedono soltanto a chi ha un lavoro stabile. Per consolarci ci confida che nemmeno lei, impiegata di banca, potrebbe avere un mutuo. È una temporanea.
Novembre 2014. Dopo sette rinnovi consecutivi di vari tipi di contratto – un paio di interinali, tre o quattro a tempo determinato, altri due CCC, cioè di collaborazione coordinata – la ditta mi ha proposto un contratto a tempo indeterminato. In cambio mi chiede soltanto, per via della flessibilità, di rendermi disponibile al lavoro a turni, sei ore comprese in un qualsiasi intervallo tra le 7 e le 24, in qualunque giorno, sabato e domenica inclusi. Ogni settimana l’orario del turno può cambiare. Naturalmente loro si impegnano a farmi sapere quale sarà il mio orario con almeno due o tre giorni di anticipo. Naturalmente ho accettato.
Gennaio 2015. Ho saputo da un biglietto di S. – adesso facciamo turni con orari diversi, così ci lasciamo messaggi sulla porta del frigorifero – che il medico le ha detto che se vuole avere un figlio dovrebbe sbrigarsi. A 35 anni una donna è anziana per avere un primo figlio. Lei però è ancora indecisa. Adesso ha un CCC, ma sta per scadere e non ha ancora trovato altro. E se non lavora lei non paghiamo l’affitto, altro che il latte in polvere e una tata. Ci vorrebbe una legge apposta, per le madri flessibili.
Luglio 2016. Mia madre vorrebbe sapere con precisione quale lavoro faccio. Per dirlo ai parenti, agli amici che chiedono notizie. Sostiene che la mette a disagio non poter rispondere che suo figlio, per dire, fa l’elettricista, o l’impiegato all’anagrafe, o il disegnatore di dépliants. Vorrei risponderle, perché ormai ha l’aria proprio vecchia. Il fatto è che, dopo tanti lavori, non lo so nemmeno io chi sono, che cosa sono. Da qualche tempo mi fa male la schiena. Ho prenotato una visita.
Luglio 2018. Dato che bisogna essere previdenti, ho chiesto a un’esperta a quanto potrebbe ammontare la mia pensione. M’ha parlato di ricongiungimenti, casse separate, regime contributivo, e dello sbaglio d’aver cambiato tante volte lavoro e azienda. Posso aspettarmi, in conclusione, una pensione pari a circa un terzo di quello che prendo al mese, quando lavoro. Ma con una pensione pari a un terzo dello stipendio mica si vive. Quindi le ho chiesto cosa dovrei fare per aumentarla. Dovresti investire almeno un terzo di quello che guadagni in un fondo integrativo, ha detto.
Settembre 2018. Non sono ancora riuscito ad andare dal medico. Ogni volta che faccio la prenotazione, capita che sono di turno.
Dicembre 2018. La ditta, di cui ho sentito che sta andando benissimo, mi ha licenziato. Ho protestato, ricordando che il mio contratto era a tempo indeterminato. M’hanno spiegato gentilmente che da quando lo statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato significa soltanto che è l’azienda a decidere quando il contratto termina.
(Mese illeggibile del 2022). Quest’anno sono riuscito a lavorare soltanto sei mesi. Le aziende mi fanno difficoltà perché, alla mia età, non ho abbastanza formazione. I giovani che arrivano adesso dalla scuola sono più preparati e flessibili. Per fortuna nell’azienda in cui lavoro adesso ho ritrovato F., ex compagno di scuola. È diventato capo settore, un uomo importante. Gli ho chiesto com’è riuscito a far carriera. Beh, dice, ho cercato di restare nella stessa azienda il più a lungo possibile. Se uno salta di qua e di là, da un posto all’altro, mica lo promuovono. Ti pare?
Chiudiamo qui, per ora, il diario dell’uomo flessibile. Come ben sanno gli storici, le cause del rapido declino della civiltà italica del terzo millennio d. C. sono tuttora avvolte dal mistero. L’ipotesi d’un avvelenamento collettivo da piombo delle condotte d’acqua, già affacciata per spiegare il crollo d’una civiltà fiorita nello stesso territorio 15-20 secoli prima, va scartata in base alle indagini compiute con i nostri super-spettrografi di massa. Ma sulla base di quest’ultimo ritrovamento, ci pare lecito ipotizzare che il culto della Flessibilità, distraendo ipnoticamente i capi come le masse da ogni altro fine esistenziale, abbia avuto in tale declino un peso non lieve. Le nostre ricerche su questo fascinoso tema proseguiranno.